Da più parti oggi si evoca il ritorno allo stato nazione, alla sovranità nazionale economico-produttiva, bancaria e fiscale, come antidoto “autarchico” all’apparato sovra-nazionale (ma anch’esso – paradossalmente – nuovo e più allargato stato-nazione a 24) dell’Europa unita e della cosiddetta “troika”.
Come spesso accade, si ragiona sugli effetti e mai concretamente sulle cause delle importanti e decisive trasformazioni in atto.
L’unione europea, nata a Roma nel lontano 1957 con la CECA e che ha accelerato il suo processo di unificazione – primariamente economico e finanziario – dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, non è altro che il tentativo “disperato” delle borghesie e delle cancellerie europee di coalizzarsi – dopo secoli e secoli di guerre intestine e fratricide – nell’ottica strategica di contrastare (o quanto meno depotenziare, influenzare) l’ascesa dei famosi “BRIC” (Brasile, Russia, India, Cina, a cui oggi possiamo aggiungere Messico, Indonesia, Sudafrica, Corea del Sud, ecc.), per ritagliarsi un ruolo da protagonista nella nuova contesa mondiale che oggi, a differenza che nell’Ottocento e nel Novecento in cui sulla scena si muovevano i tradizionali stati-nazione, si gioca tra potenze di stazza continentale. Per capirci: un’Italia, una Francia, una Germania, un’Inghilterra da sole non potrebbero neanche lontanamente sfidare colossi come l’India e la Cina, benché meno il Brasile o la neo nata Russia “imperiale” dello Zar Putin.
L’Euro dunque come concretizzazione monetaria di questo processo strutturale di reazione all’ineguale sviluppo del mercato mondiale (tendenza già ben visibile e prevista da Marx[1] in cui il movimento del capitale verso aree produttive a massimo profitto genera la creazione e l’ascesa dirompente di nuovi mercati e il declino relativo delle potenze e delle aree tradizionalmente sviluppate) va criticato all’interno di questa nuova fase strategica e non come puro e semplice spauracchio di politiche economiche e finanziarie come ad esempio quelle italiane, frutto inequivocabile di 40 anni di mancata “pianificazione” industriale e di gestione illuminata delle risorse e del patrimonio produttivo, malata di “assistenzialismo statale” (non sempre pulito e diretto alla bisogna) e di burocrazia asfissiante ed inetta, di un ceto politico corrotto ed incapace a gestirne tutte le immense potenzialità[2].
Ora questo ritorno prepotente, potremmo dire ideologico-reazionario per usare un vocabolario marxiano, allo stato-nazione, ad una gestione centralistica e corporativa dell’economico (e dunque del politico in generale, che ha – a mio avviso – un riflesso condizionato nella tendenza neo-presidenzialistica, diciamo cosi anti-parlamentaristica, anti-costituzionale, forzatamente decisionale oggi in voga[3]) in un mondo sempre più globalizzato e interdipendente che rende strutturalmente vano oltre che oggettivamente impossibile qualsivoglia ritorno di fiamma a fantomatiche autarchie, può impedire di coglierne la natura capitalistica reale, il suo essere un’inedita (per le dimensioni e le forze oggi in campo) fase dello sviluppo capitalistico e della lotta mondiale tra le potenze per spartirsi nuove fette del mercato, di cui l’Europa e il suo Euro sono soggetti principali e sempre più operativi.
Un’ideologia – quella dello stato-nazione – che non solo obnubila il piano reale dello scontro attuale (in cui il bottino è la massima estrazione di plusvalore) ma impedisce ai lavoratori – che ne sono le vittime principali – di unirsi, di trovare un terreno comune di lotta nella prospettiva di elaborare una risposta “di classe” attraverso la creazione di un efficace sindacato europeo e lottando – in sede europea – per il livellamento e la rimodulazione dei salari e delle politiche fiscali sul lavoro, in modo da abbattere la concorrenza, già feroce, tra lavoratori di aree diverse dell’Europa (che alimenta populismo e nazionalismo strisciante). E’ necessario auspicare e proporre cioè un’alternativa di sinistra (senza appiattirsi sulla mera amministrazione dell’esistente e senza accettare la naturalizzazione del piano del capitale) che contrasti attivamente un ritorno nostalgico e pernicioso ad un residuo storico come lo stato-nazione che strumentalizza le differenze storico-culturali dei lavoratori e dei diversi comparti del proletariato europeo (ormai multinazionale) per dar man forte a forze economicamente e culturalmente reazionarie (nel senso marxiano del termine, che vanno cioè contro lo sviluppo progressivo delle forze produttive) che agiscono sugli effetti oggettivi ed innegabili (ma non sulle cause) di una crisi economica in cui l’Euro è sì uno degli agenti fondamentali ma di cui non è il solo responsabile. L’Euro ha – semmai – accelerato e radicalizzato una crisi produttiva ed economica già in atto[4] e di cui “la nuova fase strategica” sopra indicata non è altro che l’empirica, evidente, manifestazione.
Evocare dunque lo stato-nazione come antidoto ai mali della finanziarizzazione dell’economico imposta dalla globalizzazione neo-liberista connessa alla crisi radicale del welfare state occidentale (nato dalla grande crisi del’29) e della rappresentanza politica in particolare e parlamentare in generale (deprivati di senso da questa stessa globalizzazione finanziaria), ha dunque il solo ed unico scopo di “banalizzare”, stigmatizzare ideologicamente il processo epocale in atto (declino dell’Occidente e ascesa dei BRIC) e di scaricare idealmente su di uno stato-nazione sovranazionale come l’Unione Europea una crisi produttiva e di ristrutturazione globale[5], dividendo i lavoratori e indebolendo la risposta operaia, rafforzando quello stesso potere anonimo e globalizzante (che uccide le particolarità economico-produttive e le scelte finanziarie autonome delle “nazioni[6]”) contro cui si pensa di combattere.
Esempio lampante di questa deriva ideologica è la tendenza attuale – da parte di alcuni intellettuali – a dialogare con forze e soggetti (pensiamo a Casa Pound[7], associazione politico-culturale di estrema destra molto vicina al Front National di Marie Le Pen) in nome di un ritorno “tattico” alla particolarità invasa e mutilata della comunità nazionale come alternativa strategica alla cattiva universalità del mercato mondiale incarnato dalle politiche lacrime e sangue dell’Unione europea.
Ora, questo incontro ci pone diverse domande, decisive a mio avviso, sul ruolo e la funzione dell’intellettualità critica (che alle volte non ha timore di utilizzare a proprio piacimento una propria personalissima interpretazione di Marx per avallare tesi e scelte politiche che col pensiero marxiano, hanno davvero poco a che vedere) e sull’attualità o meno del discorso gramsciano sull’egemonia come “imposizione” storico-pratica dei valori etici e politici portati avanti dalle forze di sinistra (occorre capire oggi quali forze e quale sinistra) e del lavoro, sulla reale ed oggettiva praticabilità di un’alternativa che vada oltre lo stantio riformismo tradizionale (che dal New Deal roosveltiano e keynesiano arriva fino al New Labour di Blair e al “renzismo” attuale) e il settarismo rivoluzionario dei neonati partiti comunisti (che civettano troppo con miti del passato) e il nostalgico rifondare (non si capisce bene su quali basi teoriche e programmatiche) un capitalismo di stato morto e sepolto più di vent’anni fa.
Occorre dunque riflettere – alla luce delle attuali trasformazioni dentro e fuori la classe – il ruolo del sindacato e di un partito – potremmo dire del lavoro – che unisca tutte quelle forze “antagoniste” al piano del capitale e della globalizzazione neo-liberista (che ha nell’Euro uno dei suoi agenti fondamentali) nella prospettiva di criticare l’attuale modo di produzione capitalistico (causa prima e ultima di ogni sua crisi[8]) nel ridefinire una nuova soggettività politica, culturale e sociale in grado di porsi alla testa di una trasformazione che investa non solo la struttura stessa della produzione e del consumo per come li conosciamo e li subiamo oggi, ma della costellazione etica, valoriale, potremmo dire morale, della società in cui viviamo.
Analizzare, studiare e criticare per andare oltre le crisi sistematiche di un modo di produzione, comprendere cos’è la produzione oggi e cosa dovrebbe essere in futuro (dalla produzione per il profitto alla produzione per i bisogni concreti degli uomini liberi e associati[9]) per riaprire una discussione più ampia e democratica possibile sui soggetti che la subiscono e che sono chiamati oggettivamente, dal piano stesso del capitale, a superarla progressivamente senza civettare miti e nostalgie nazionalistiche apologetiche prive di un terreno storico presente su cui fondarle.
Questo, a mio avviso, penso sia il compito immane di discussione e di valutazione che abbiamo di fronte. Nessuno può dire che sia facile né di pacifica risoluzione né tantomeno risolvibile su un mero piano teorico-ideale. I simposi hanno fatto il loro tempo. Così come siamo convinti, con Marx, che le idee hanno una forza materiale, così i soggetti devono avere una forza ideale che li muove e li guida nell’azione. E riuscire oggi, nel caos in cui viviamo e senza una bussola teorica all’altezza di questo (apparente) caos, ad individuare una soggettività unificante e un’analisi critica in grado di farci uscire fuori dalla sua morsa infernale che ci “obbliga” a fare i conti con la “trivialità astratta della pseudo concretezza quotidiana”, direbbe Karel Kosik, e con l’esiziale “cretinismo parlamentare”, nonchè una intellettualità curiosa e attiva non corrotta dal carrierismo e dal cinismo dell’evidenza empirica immodificabile, è davvero impresa ardua. Tutto ciò che ci impegna è difficile. Nulla viene da sé.
Nel mondo “grande e terribile” – come ci ricorda Gramsci – occorre essere partigiani e nel prendere posizione contro la strumentalizzazione del disorientamento e della sofferenza che il capitalismo produce verso ideologie grette e reazionarie, assumersi la piena responsabilità di una scelta controcorrente, che parte si da una individualità e da una speranza personale ma che abbraccia il destino e l’orizzonte di tutta l’umanità.
La tragicità delle attuali ricette di austerity selvaggia e disumana imposte dalla troika in Occidente, e lo sfruttamento – altrettanto selvaggio e disumano – dei paesi emergenti sono due facce della stessa medaglia: quello di un modo di produzione ormai totalmente inabile (dopo secoli in cui rispetto al modo di produzione feudale e schiavistico era progressivo e liberatorio) a dare risposte ai bisogni e all’anelito di felicità degli uomini.
I tanti, troppi suicidi, rappresentano ancora una volta tragicamente l’incapacità ormai cronica della sinistra di rappresentare e portare avanti le istanze e le rivendicazioni di chi lavora. Il problema dunque è politico, il più politico che ci sia. La crisi non è solo economico-produttiva ma anche di un sistema di protezioni sociali che ormai vacilla terribilmente e di un padronato internazionalizzato che ragiona da classe “mondiale” (spostando la produzione dove il costo del lavoro è risibile e dove le garanzie sindacali sono inesistenti) in attesa che la classe si svegli e inizi a ragionare in termini di classe. Ma sta a noi lottare in questa prospettiva, affinché quelle tragedie non si ripetano più. La condizione reale del lavoro deve tornare al centro di qualsiasi discorso che sia di alternativa radicale al piano organico del capitale europeo e mondiale.
[1] Marx già nel 1852, ragionando sulle conseguenze economico-politiche della scoperta dell’oro in California, intuì brillantemente che tale scoperta avrebbe mutato alla radice i rapporti tra le potenze e la loro bilancia economica, facendo declinare le vecchie potenze (Francia, Inghilterra, Spagna, ecc) e avrebbe comportato lo spostamento dell’asse commerciale mondiale dall’Atlantico (dopo che la scoperta dell’America l’aveva a sua volta strappato al Mediterraneo) al Pacifico. Ciò comportò l’emersione degli stati uniti a potenza continentale (scatenando e risolvendo la guerra civile nella creazione di un forte e potente mercato nazionale, sconfiggendo le forze reazionarie e “feudali” sudiste) e lo sviluppo economico progressivo dell’Asia, Cina e Giappone in testa. Impressionante, a mio avviso, come analizzando oggettivamente le tendenze – alle volte accidentali e non previste – del mercato mondiale si possa indicare una concreta prospettiva storica della lotta.
[2] Cfr. su questo l’ottimo contributo di Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, 2012, Laterza
[3] Va però detto, che al di là del “decisionismo” renziano e al neo-presidenzialismo retto e condotto dal Presidente Napolitano, la “casta” politica italiana, per cultura e idee, non è assolutamente “adeguata” e all’altezza delle sfide che la nuova fase strategica pone alla democrazia borghese e alle forze economiche che rappresenta. Ciò non solo per suoi demeriti e limiti ma anche perché, come detto, la globalizzazione neo-liberista svuota di senso e potere decisionale reale la rappresentanza parlamentare – già ridotta alla pantomima quotidiana della decretazione d’urgenza ormai divenuta normalità – e alle forme di rappresentanza politica in generale, come i partiti e i sindacati. La finanziarizzazione dell’economico svuota la politica del suo essere utopia concreta di trasformazione relegandola a pura e semplice amministrazione dell’esistente, aiutando materialmente e ideologicamente il processo – già incipiente e dilagante – della naturalizzazione del piano operativo e riproduttivo (V-V’) del capitale mondiale.
[4] Una crisi che ha colpito in modo particolare l’Italia per via del suo tradizionale “assistenzialismo” economico e per le piccole dimensioni delle sue aziende, la famosa imprenditoria minuta, spesso a gestione familiare (più snelle e più dinamiche in un mercato chiuso e protetto ma alla deriva nella concorrenza spietata del mercato mondiale globalizzato) e per il cinismo e l’irresponsabilità della sua classe dirigente e imprenditoriale oltre alla mancanza di coraggio (sempre suggestionato da triviali logiche elettoralistiche) del ceto politico nel fare le benedette “riforme” che si attendono da 40 anni.
[5] Una crisi di ristrutturazione che avviene a tutti i livelli e in tutti i comparti produttivi in Europa e non solo, dall’alimentare all’aereonautica, dall’industria spaziale a quella degli armamenti, dall’informatica alla telefonia, dall’assicurativo al bancario, e cosi via. Ristrutturazione significa rispondere alle nuove esigenze della lotta inter-imperialistica e cioè comprimere e fondere forze produttive (capitale costante) ed espellere manodopera in eccesso ed inutilizzabile e non convertibile (anche perché i lavoratori alias capitale variabile con vecchi contratti e vecchie garanzie non possono magari accettare condizioni di lavoro peggiori e più precarie oppure perché considerati obsoleti e non più sufficientemente qualificati) alla nuova composizione organica del capitale.
[6] Occorre però capire cosa si intenda oggi – in mondo globalizzato – per “nazione” e stato-nazione.
[7] E’ vero che quando la ragione si offusca si generano mostri (in riferimento alla crescita della destra neo nazista, populista e xenofoba in Europa e non solo, prodotte anche certamente dalle politiche di austerità lacrime e sangue della troika e dalla lotta dei lavoratori in un’asta al ribasso davvero deprimente in cui i soli a salvarsi sono le grandi banche e i comitati d’affari rimasti intonsi dopo la grande crisi e che continuano tranquillamente a speculare senza aver mai pagato un euro per le loro speculazioni, dopo aver bruciato miliardi dei fondi pensioni dei dipendenti e dei pensionati) ma è d’uopo ricordare che quando la sinistra (bisogna ovviamente intendersi sul significato di questa parola) perde legittimità politica e culturale (perché tra burocratismo e riformismo non è più in grado di rappresentare le forze del lavoro e della cultura) la destra ne approfitta ergendosi a unico fronte di opposizione e di alternativa; mi vengono i brividi a pensare che a Roma, al di là di alcuni coraggiosi centri sociali, la cultura “militante” è appannaggio di Casa Pound. Una città che ha visto come sindaci personaggi come Argan e Petroselli e come assessore alla cultura un certo Renato Nicolini. Non voglio con questo inneggiare ad una sinistra eternamente d’opposizione (in cui è sempre facile urlare senza avere la responsabilità di costruire) né tanto meno ad una rivoluzione “permanente” ma il problema è serio e bisognerebbe discuterne seriamente. La parabola ascendente o discendente (a seconda della propria opinione) del PCI fino al “decisionismo” renziano (processo da studiare attentamente) ne è la prova lampante. Cfr. su questo due ottimi volumi di Nello Ajello. Intellettuali e PCI (1944-1958) e Il lungo addio. Intellettuali e PCI, 1958-1991, entrambi editi da Laterza. Ovviamente di questo “declino” generale non sono esenti le varie formazioni della sinistra extraparlamentare. Ma qui il discorso, relativo alla pregnanza teorico-politica della “nuova sinistra” sarebbe troppo lungo e non in linea con il tema trattato.
[8] Marx diceva che il capitale è crisi in processo.
[9] Cfr. sul rapporto storico-dialettico tra bisogni e produzione, tra teoria del valore e appropriazione per il soddisfacimento dei bisogni dell’umanità entro nuove forme democratiche e orizzontali del consumo, tutta la produzione di Agnes Heller e soprattutto La teoria dei bisogni radicali in Marx, Editori riuniti, Roma 1974.